Ci siamo imbattuti per caso in un articolo del Sole 24 Ore di un paio d’anni fa. Che avevamo salvato, in un file di testo, proprio con l’intento di rileggerlo a tempo debito. Descrive una situazione che non sembra essere migliorata significativamente. Come potete immaginare, non è un fatto positivo.
Blog aziendali a quota 500 milioni ma in Italia non decollano
I “diari online” delle aziende sono sempre più numerosi, ma il nostro Paese va in controtendenza: pochi contenuti long-form, aggiornamenti saltuari e basso livello di interazione
“Vivi e lavora ovunque”. La nuova strategia aziendale Airbnb è stata raccontata pochi mesi fa (2 anni fa, trattandosi di un “vecchio” articolo, n.d.r.) ai settemila dipendenti tramite un post sul blog aziendale. Nel dibattito sul lavoro ibrido dopo l’emergenza pandemica è intervenuto in prima persona Brian Chesky, un passato da designer fino all’intuizione geniale di Airbnb, di cui oggi è CEO e, qualche volta, blogger.
La scuola americana dei blogger
Negli Stati Uniti si impongono e sono più vivi cha mai, i corporate blog, i blog aziendali.
Lanciano prodotti e servizi, aggiornano dipendenti e clienti, delineano nuove strategie e persino rivelano segreti industriali. Ha fatto scalpore la scelta di Tesla di pubblicare i file di progettazione del suo connettore per auto elettriche in un post sul blog.
Non una svista, ovviamente, ma una scelta strategica. L’obiettivo è promuoverne l’adozione come nuovo standard tecnologico.
Nei blog aziendali, altrove, si svelano anteprime anche importanti: è il caso di Apple, che ha annunciato il primo smartphone con connessione satellitare, ritenuto una funzionalità indispensabile; perchè si tratta di una connessione che può arrivare a salvare vite umane. Intanto Adam Mosseri, CEO di Instagram, sul blog poche ore prima dell’udienza al congresso americano ha annunciato una serie di iniziative per la sicurezza dei giovani utenti.
Ovviamente il blog è già morto tante volte, secondo il pensiero comune
Per molti i blog sarebbero stati soppiantati da social e metaverso. In realtà i blog aziendali sono tutt’altro che morti.
Findstack, piattaforma americana specializzata nella comparazione di siti web, certifica più di 500 milioni di blog attivi nel mondo. L’88% delle aziende Fortune 500 è impegnato a scrivere blog, con una frequenza di aggiornamento che, nel 38% dei casi, è settimanale.
I contenuti long-form ottengono in media il 77,2% in più di backlink, mentre in America la figura del corporate blogger arriva a guadagnare fino a 55mila dollari all’anno.
La situazione italiana
E da noi? In Italia tra i più noti e attivi ci sono, secondo il Sole 24 Ore, ad esempio, Tampax, Reebok, EasyJet, Nen Elettricità, Italo Treno e Nutella.
Però in questo elenco, a distanza di 2 anni di alcuni blog sono c’è più traccia (EasyJey, altri ci sono ma a volte sono un po’ nascosti (quasi mai li trovi sotto una vera e propria voce di menu “Blog”) e non propriamente ricchi di contenuti. Non un bel segnale…
Attualmente pochi brand optano per questa modalità di narrazione, “relegando” la produzione di contenuti e la loro pubblicazione ai profili social.
È quanto emerge dall’analisi dell’Osservatorio Brand Reporter Lab. “Dieci anni fa si è temuta una crisi dei blog, sopraffatti dal successo dei social. Ma non sono stati soppiantati perché i blog consentono una comunicazione più ampia e approfondita. In realtà dal 2010 aziende e professionisti si sono avvicinati ai blog, includendoli nei loro siti web come strumento di relazione e come ambiente nel quale promuovere la propria azienda con scrittura diaristica”, afferma Carlo Fornaro, fondatore di Brand Reporter Consulting, società che gestisce l’osservatorio Brand Reporter Lab.
Tra il dire e il fare…
Eppure tra il dire e il fare c’è di mezzo il coraggio di sperimentare, in un dialogo costante che deve mettere da parte l’autoreferenzialità.
“Ancora oggi, per come vengono gestiti, i blog sono luoghi dove le scelte editoriali tradiscono un indirizzo verso l’acquisto diretto di prodotti o servizi piuttosto che un’apertura al confronto. Certo, le grandi aziende italiane affrontano il tema della pubblicazione di contenuti proprietari sotto forma di magazine online o blog, talvolta con una derivazione cartacea. Ma nessuna offre la possibilità ai propri lettori di intervenire sulle tematiche direttamente. Si tratta quindi di pubblicazioni verticali su tematiche relative al business aziendale. Spesso nelle aziende energetiche, ma anche in quelle di telecomunicazioni e farmaceutiche, le tematiche sono meramente operative”, precisa Fornaro.
Dai dati dell’osservatorio emergono casi internazionali – RedBull, General Electric, Coca Cola, Adidas – che non trovano una declinazione in Italia.
Una questione culturale. E di “coraggio”
“È come se da noi le aziende non comprendessero le novità culturali e strutturali del digitale, soprattutto la possibilità della conversazione diretta con i portatori di interesse. Così emerge una bassa consapevolezza al confronto e un’alta predisposizione all’adozione di un linguaggio poco giornalistico e molto propagandistico, legato a fini commerciali anziché informativi. Ma non si comprende come mai venga percepito come pericoloso il confronto su un blog, mentre venga accettato quello sulle piattaforme sociali. Inoltre il formato di queste conversazioni relegate ai social fa sì che la lunghezza delle argomentazioni non superi la forma breve. Il formato lungo sarebbe migliore per trattare argomenti complessi, come quelli su tecnologia, energia, sostenibilità.
Così la pratica del brand journalism, spesso sbandierata negli intenti, viene disattesa in termini pratici”, conclude Fornaro.
La crescita però coinvolge i blog dei micropreneurs, ossia degli imprenditori digitali. Una pratica anti-social per riconquistare i mercati e renderli più equi e sostenibili. Lo sostiene il giornalista canadese Cory Doctorow nel suo libro “Chokepoint Capitalism”, diventato il manifesto di una generazione di blogger. Una modalità per raggiungere in modo trasversale nuovi pubblici.
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